Luigi Santucci nel 1944: una necessaria positiva alienazione

una necessaria positiva alienazione(..) Scoprii  L’Amour et l’Occident, o piuttosto v’inciampai, in una stagione tutt’altro che libresca: la primavera del 1944, quando mi toccava passare lunghe settimane nel castello  d’una principessa, in Canton Ticino, dove facevamo stallo  noi partigiani italiani; una sorta di dorata licenza in attesa  che i nostri capi, fatti gli opportuni smistamenti, ci riconvogliassero nelle valli della guerriglia. In quei quasi ariosteschi ritiri, assurdi per cibi prelibati e linde lenzuola, c’era provvidenzialmeote una biblioteca, principesca anch’essa e saccheggiabile. La mia mano (mi vergogno un p0’ a confessarlo) corse su questo volume il cui titolo, creduto malizioso, prometteva letture galanti e forse piccanti a quella pigrizia erotica e meridiana che la vita di guarnigione suole ingenerare, Ma l’addentrarmi nelle sue pagine, nonché deludermi, mi porrò subito a un’esaltazione, per  fortuna su altri livelli: a quell’incapacità di staccarsi dal  libro che caratterizza i grandi incontri, le decisive scoperte intellettuali che ci segnano per tutta la vita, Tanta esaltazione che, quando la fanfara squillò per me a ributtarmi  da quell’arcadia elvetica nella bolgia del Nord Italia, non resistetti a consumare un piccolo e tutto italico tradimento verso la mia ospite: mi ficcai nello zaino l’Amour et l’Occident.

Questo libro finii dunque di leggerlo nei bivacchi di quella che la storia chiamò poi, con termine diventato pomposo e manualistico, « la Resistenza». Mi accompagnò nel mio fagotto come un breviario. Lo lessi e lo annotai al lume di torce elettriche o candele, nelle stamberghe e nei fantomatici domicili dove, per far perdere le nostre tracce, si dormiva una sola, notte bisbigliando una parola d’ordine. E fu quel blocco di carta stampata (ma al di qua delle fascinanti tesi storiche e filosofiche, della serratissima dialettica culturale dipanata da Rougemont: tutto ciò lo decifrai compiutamente più tardi, a freddo) la nourriture e insieme l’« altra dimensione» di quell’avventura senz’armi che fu la mia. C’era, in quell’oggetto che si andava ogni giorno sgualcendo e deteriorando, il noùmeno, il prezioso miele di cui avevamo perduto il sapore: la cultura, il libero e inebriante esercizio del talento, l’Europa e l’Occidente appunto, per cui ci si batteva e si ramingava di forra in forra, di nascondiglio in nascondiglio. Il saggio di Rougemont mi divenne dunque l’immagine d’una città alta di pensiero, con le sue cuspidi e cattedrali, che sconfiggeva l’orizzonte corrusco e fangoso della guerra: una Terra promessa, un coraggio. Così io leggevo e fuggivo, leggevo e andavo ad appuntamenti in cantine di cospiratori, in tipografie suburbane di stampa clandestina. E nei momenti di panico e resa interiore (che per me pavido iutellettuale furono tanti e troppi) la forza olimpica e insieme provocante, colloquiale ed estrosa di Rougemont, fu per me durante quei mesi non so quale malleveria dello spirito sulla violenza, un non praevalebunt, una segreta mano sulla spalla che — senza che il libro c’entrasse per nulla con quanto andavo vivendo — mi fornivano la più necessaria, positiva « alienazione».
Fu pertanto una specie di voto il mio impegno che, se fossi uscito vivo, avrei tradotto quel libro, gli avrei trovato un editore in Italia; e sarei poi andato sulle tracce del prestigioso maestro (che faccia, che voce poteva avere?...) per annunciargli quale impensabile sorte avesse avuto la sua fatica, ben oltre il messaggio culturale, nella bisaccia di un ignoto giovanotto del maquis italiano.
Tutte cose che ho fatto, con premiante letizia. E altresì quella di partecipare a Denis (il quale mi si rivelò persona di affabilissimo fascino, ben all’altezza della sua genialità di scrittore) che il suo libro mi aveva insegnato più di tutti i corsi universitari, aveva sgranchito a dimensioni europee la mia accademica saputaggine di laureatino.