1. Con la mia telecamera tascabile avevo filmato il nostro incontro in Pretura, perché è difficile descrivere a parole qualcosa o qualcuno che non ha un esterno. Di questo parleremo dopo.
2. Finirà diciamolo subito, finirà un giorno questo assurdo antropomorfismo della macchina che si identifica col corpo, costretta ad avere un involucro, una carrozzeria, una superficie, che il tatto percepisce come inutile copertura di vuoti, di buchi di niente.
In un minimo incidente stradale si vede bene che la superficie ammacca solo se stessa e la vettura va, ancora a sbrendoli o a cartoccio, ma va.
Si vede bene se un amante geloso sfoga i suoi pugni sul frigorifero, che il frigorifero va, o, semplicemente, se a caffè uno continua a schiacciare la lattina vuota, che c’è sempre un pò di vuoto che resta intatto.
La superficie serve solo per l’occhio e l’occhio riconosce bocca, occhi, denti, dove ci sono tasti, pulsanti, lastre di vetro, bulloni.
In qualsiasi macchinario, anche in quelli sepolti nelle fabbriche sotterranee, folli leggi contro gli infortuni, impongono coperture parodistiche e la parodia passa nel linguaggio, lo confonde e disgrega la conversazione: «la bella carrozzeria di quella ragazza» — «il braccio di un carerpiller».
Se le macchine non avessero involucro non se ne potrebbe parlare.
Ora, in Pretura, la ragazza esponeva la sua bellezza, che è tutta interiore.
Non se ne può parlare. Si muoveva agitata e noi possiamo ammirare la sua bellezza solo quando la macchina è ferma.
La scoperchiamo, infiliasno la testa dentro, il dito fra i fili, l’unghia nella valvola.
Vesalio fu il primo a capire il problema. Ma ce ne sono stati pochi e non hanno molto seguito. D’altra parte in qualsiasi letto, l’atto d’amore va verso l’autopsia. La ragazza è ferma. C’è qualcosa di rotto o qualcosa si rompe.
3. Chiamato a vedere cosa succedeva al mio impianto di videotape, che non rendeva l’immagine raccolta in Pretura, il folle esperto, smontò molte cose e fra le altre un vecchio frullatore caparbio, che procedeva a salti. Tutte queste interiora sono rimaste sparse. Il lavoro l’avrebbbe continuato il giorno dopo e il giorno dopo non si è più visto nessuno.
Mi accade spesso di sognare tipi diversi di macchine, che di colpo si slacciano gli involucri, esibiscono i loro eccitanti interni e si mescolano con furia e con passione, dal vivo, unendo le loro fonti di energia. Ma io sono un caso a parte: avrete notato che la psicanalisi non è meccanicistica. E in ritardo sul secolo. In due parole: non c’è un’officina di psicanalisi. Non c’è un solo psicanalista meccanico, da chiamare al Soccorso ACI per i guasti che si verificano in sogno.
L’incontro di un frullatore con una video-rape genera la visione di una macchina visibile solo per successione interiore, abolita ogni necessità visiva di un qualsiasi esrerno.
Forse il concetto di intimità può essere percorso solo in una successione di interni.
4. La mia storia d’amore ormai si agita dentro al frullatore/videorape. Vibrazione per vibrazione la mia storia trasaliva. Si amplificava, con le sue immagini costruiva un unico frappé immaginario e più gli organi del frullatore si addentravano oltre l’involucro della cassetta, più la mia storia di un martino in Pretura con la ragazza che insiste per gli alimenti, ridotti al terzo, escluso il mantenimento, trasaliva oltre in incontri notturni su ampi rerrazzi, chiome d’alberi e musica in Giardini Pubblici — aperti a una miriade di altri amori, insegni- menti nell’ombra, finestre ammorbidite di luci velate.
5. Già adesso — mi si dice — nei sistemi dei robot si adoperano insiemi computativi di due macchine. Insomma una fa da cervello all’altra, forse reciprocamente. Nel prototipo sperimentale del robot integrale sovietico LPI — 2 (dice Vjaceslav V. Ivanov) il sistema di di controllo è basato su un insieme computativo che affianca i calcolatori «ASUT-6000» e «Miusk 32».
Nella mia storia, mentre vedo il videotape che gira inviscerato nel frullatore, non si sa se il frullatore effettua operazioni illogiche con sequenza indiscreta di simboli o se il video-tape elabora blocchi d’informazione complessi o viceversa. Sia che il frullatore faccia da cervello, sia che il nostro faccia da cervello: le immagini vertiginose si accoppiano in una enorme melassa.
La giovane signora con la mia testa si avvicina a me con la sua,.
Mi prende alla mia gola con la mia mano destra e d’improvviso mi bacia con la mia bocca mentre rispondo con il fremito della sua e Giorgio, l’amico abbandonato, vibra fra me e lei cercando io me il sapore di lei e lei cerca in sé il sapore di lui, sapori diversi nel plancton bianco e nero del frullatore, che emulsiona l’io, il tu e il lui.
Non c’è pace. La vibrazione interessa a se stessa e l’amore va avanti a flutti, una marea d’istinto e di repressioni, ricordi, previsioni del futuro, Appena due si attardano per far l’amore, scoppia attorno a loro il branco, l’assemblea e ognuno vuole la sua pane di feconda zione, la sua parte di uova. Un unico sperma ci copre tutti. Pezzi di corpo saltano nelle fauci degli inseguitori, che non rinunciaoo a inseguire e non molleranno mai la parte della mia vita che hanno avuto. Gli appartiene e non mi appartiene più. Perché ognuno sente il dirirtto di portare avanti la vita anche degli altri. E di colpo, anche nei sogni, ti saltano addosso e ti mandano in pezzi.
Corrado Costa
Denis de Rougemont:
"Tutto ciò mi ricorda la frase di Vernet a proposito d’un quadro
che vendeva molto caro: «Mi ha richiesto un’ora di lavoro, e tutta la vita »
"L’estate del ‘38 fu una ben tragica estate: e, in quella estate, Denis de Rougemont, scrisse, dalla Francia, la parola e fine » al suo «L’Amore e l’Occidente ». Era un intellettuale giovane, aveva trentadue anni..[Armanda Guiducci]
Dunque il libro arriva nel 1944 nelle mani attente di Santucci che lo tradurrà
E nei momenti di panico e resa interiore (che per me pavido intellettuale furono tanti e troppi) la forza olimpica e insieme provocante, colloquiale ed estrosa di Rougemont, fu per me durante quei mesi non so quale malleveria dello spirito sulla violenza, un non praevalebunt, una segreta mano sulla spalla che — senza che il libro c’entrasse per nulla con quanto andavo vivendo — mi fornivano la più necessaria, positiva « alienazione».
[leitmotiv o keywords, Fenoglio, Santucci]
Ci avverte Denis de Rougemont: Ho chiamato « libri » le diverse parti di quest’opera, perché ognuna abbozza il contenuto d’un volume di dimensioni ordinarie. La gran quantità dei fatti e dei testi citati, il continuo intrecciarsi dei leitmotiv, rischierebbero di sviare qualche lettore se non dessi qui la chiave della sua composizione. .
In sostanza, io dico, è un continuo parlar d'altro, cioè rivendicare esplicitamente l'andar pe' li rami, tralignare, spiazzare,scartar di lato improvvisi. Dato che, lo sappiamo bene, non ha senso puntare diritti allo scopo che ci fugge avanti, per cui è sempre preferibile menare il campo pe' l'aia, lasciare andare il discorso che ci sfugge dalle mani quando tentiamo di afferrarlo.
Cioè un ipertesto di fatto che si assume come tale a leitmotiv strutturale, in quanto fa riferimento agli oggetti-libro di L' amore e l'Occidente | Autore Rougemont Denis de | Traduttore Santucci L. | BUR Biblioteca Univ. Rizzoli (collana La Scala. Saggi)
(..) Scoprii L’Amour et l’Occident, o piuttosto v’inciampai, in una stagione tutt’altro che libresca: la primavera del 1944, quando mi toccava passare lunghe settimane nel castello d’una principessa, in Canton Ticino, dove facevamo stallo noi partigiani italiani; una sorta di dorata licenza in attesa che i nostri capi, fatti gli opportuni smistamenti, ci riconvogliassero nelle valli della guerriglia. In quei quasi ariosteschi ritiri, assurdi per cibi prelibati e linde lenzuola, c’era provvidenzialmeote una biblioteca, principesca anch’essa e saccheggiabile. La mia mano (mi vergogno un p0’ a confessarlo) corse su questo volume il cui titolo, creduto malizioso, prometteva letture galanti e forse piccanti a quella pigrizia erotica e meridiana che la vita di guarnigione suole ingenerare, Ma l’addentrarmi nelle sue pagine, nonché deludermi, mi porrò subito a un’esaltazione, per fortuna su altri livelli: a quell’incapacità di staccarsi dal libro che caratterizza i grandi incontri, le decisive scoperte intellettuali che ci segnano per tutta la vita, Tanta esaltazione che, quando la fanfara squillò per me a ributtarmi da quell’arcadia elvetica nella bolgia del Nord Italia, non resistetti a consumare un piccolo e tutto italico tradimento verso la mia ospite: mi ficcai nello zaino l’Amour et l’Occident.
Questo libro finii dunque di leggerlo nei bivacchi di quella che la storia chiamò poi, con termine diventato pomposo e manualistico, « la Resistenza». Mi accompagnò nel mio fagotto come un breviario. Lo lessi e lo annotai al lume di torce elettriche o candele, nelle stamberghe e nei fantomatici domicili dove, per far perdere le nostre tracce, si dormiva una sola, notte bisbigliando una parola d’ordine. E fu quel blocco di carta stampata (ma al di qua delle fascinanti tesi storiche e filosofiche, della serratissima dialettica culturale dipanata da Rougemont: tutto ciò lo decifrai compiutamente più tardi, a freddo) la nourriture e insieme l’« altra dimensione» di quell’avventura senz’armi che fu la mia. C’era, in quell’oggetto che si andava ogni giorno sgualcendo e deteriorando, il noùmeno, il prezioso miele di cui avevamo perduto il sapore: la cultura, il libero e inebriante esercizio del talento, l’Europa e l’Occidente appunto, per cui ci si batteva e si ramingava di forra in forra, di nascondiglio in nascondiglio. Il saggio di Rougemont mi divenne dunque l’immagine d’una città alta di pensiero, con le sue cuspidi e cattedrali, che sconfiggeva l’orizzonte corrusco e fangoso della guerra: una Terra promessa, un coraggio. Così io leggevo e fuggivo, leggevo e andavo ad appuntamenti in cantine di cospiratori, in tipografie suburbane di stampa clandestina. E nei momenti di panico e resa interiore (che per me pavido iutellettuale furono tanti e troppi) la forza olimpica e insieme provocante, colloquiale ed estrosa di Rougemont, fu per me durante quei mesi non so quale malleveria dello spirito sulla violenza, un non praevalebunt, una segreta mano sulla spalla che — senza che il libro c’entrasse per nulla con quanto andavo vivendo — mi fornivano la più necessaria, positiva « alienazione».
Fu pertanto una specie di voto il mio impegno che, se fossi uscito vivo, avrei tradotto quel libro, gli avrei trovato un editore in Italia; e sarei poi andato sulle tracce del prestigioso maestro (che faccia, che voce poteva avere?...) per annunciargli quale impensabile sorte avesse avuto la sua fatica, ben oltre il messaggio culturale, nella bisaccia di un ignoto giovanotto del maquis italiano.
Tutte cose che ho fatto, con premiante letizia. E altresì quella di partecipare a Denis (il quale mi si rivelò persona di affabilissimo fascino, ben all’altezza della sua genialità di scrittore) che il suo libro mi aveva insegnato più di tutti i corsi universitari, aveva sgranchito a dimensioni europee la mia accademica saputaggine di laureatino.
http://www.ibs.it/code/9788817112888/rougemont-denis-de/amore-occidente.html
Denis de Rougemont: L'amore e l'Occidente
In questa prima parte mi limito a darvi qualche informazione sull'autore e sommarie indicazioni sul contenuto del libro.
Denis de Rougemont, scrittore e saggista elvetico, nacque nel 1906 a Couvet, nel cantone di Neuchâtel. Dapprima indirizzato verso gli studi scientifici, si dedicò poi alle lettere, studiando a Neuchâtel, a Vienna e a Ginevra e seguendo fra l'altro un seminario di Jean Piaget sull'epistemologia genetica e un corso di Max Niedermann sulla linguistica di Ferdinand de Saussure. Accostatosi al pensiero di Emmanuel Mounier, nei primi anni '30 aderì al movimento personalista.
Rougemont è da considerarsi fra i padri dell'Unione Europea, in quanto dedicò gran parte della propria esistenza alla diffusione dell'idea federalista; nel 1950 fondò il Centro di cultura europea di Ginevra.
Nei suoi scritti si avverte il bisogno di definire gli aspetti essenziali della civiltà occidentale, e la preoccupazione per il destino che pare sovrastarla con l'affermarsi del bolscevismo, del fascismo e del nazionalsocialismo, con il secondo conflitto mondiale e poi con la guerra fredda.
Fra le sue opere più significative: Penser avec les mains(Pensare con le mani, 1936), Journal d'un intellectuel en chômage (Diario di un intellettuale disoccupato, 1937), L'amour et l'Occident (L'amore e l'Occidente, 1939),Lettres sur la bombe atomique (Lettere sulla bomba atomica, 1947), L'aventure occidentale de l'homme (L'avventura occidentale dell'uomo, 1957), Vingthuit siècles d'Europe(Ventotto secoli d'Europa, 1961), Lettre ouverte aux européens (Lettera aperta agli europei, 1970).
Denis de Rougemont morì nel 1985 a Ginevra. Della diffusione del suo pensiero si occupa oggi una fondazione a lui intitolata.
L'amore e l'Occidente è un testo complesso e affascinante, uno dei più singolari saggi sul sentimento amoroso. Si fonda su una tesi originale che a suo tempo suscitò aspre critiche: secondo questa tesi, alle origini della poetica dei trovatori, che ha permeato di sé l'intera letteratura europea e ha generato il nostro modo di concepire l'amore, si troverebbe l'eresia catara.
Nella prefazione alla 1a edizione, datata 21 giugno 1938, Rougemont scrive:
Ho vissuto questo libro lungo tutto il corso della mia adolescenza e della mia giovinezza; l'ho concepito sotto forma di opera scritta, nutrendolo di qualche lettura, da due anni; infine l'ho redatto in quattro mesi. Tutto ciò mi ricorda la frase di Vernet a proposito d'un quadro che vendeva molto caro: «Mi ha richiesto un'ora di lavoro, e tutta la vita».
Segue il sommario dell'edizione accresciuta (1956)
Libro I: Il mito di Tristano
1. Il trionfo del romanzo, e ciò ch'esso nasconde
2. Il mito
3. Attualità del mito; ragioni della nostra analisi
4. Il contenuto palese del romanzo di Tristano
5. Enigmi
6. Cavalleria contro matrimonio
7. L'amore del romanzo
8. L'amore dell'amore
9. L'amore della morte
10. Il filtro
11. L'amore vicendevole infelice
12. Una vecchia e grave melodia
Libro II: Le origini religiose del mito
1. L'«ostacolo» naturale e sacro
2. Eros, o il desiderio senza fine
3. Agapé, o l'amore cristiano
4. Oriente e Occidente
5. Reazione del cristianesimo nei costumi occidentali
6. L'amor cortese: trovatori e catari
7. Eresia e poesia
8. Obiezioni
9. I mistici arabi
10. Sguardo d'insieme del fenomeno cortese
11. Dall'amor cortese al romanzo bretone
12. Dai miti celtici al romanzo bretone
13. Dal romanzo bretone a Wagner attraverso Gottfried
14. Prime conclusioni
Libro III: Passione e misticismo
1. Poniamoci il problema
2. Tristano: un'avventura mistica
3. Trasposizioni curiose, ma inevitabili
4. I mistici ortodossi e il linguaggio della passione
5. La retorica cortese nei mistici spagnoli
6. Nota sulla metafora
7. Liberazione finale dei mistici
Libro IV: Il mito nella letteratura
1. D'una precisa influenza della letteratura sui costumi
2. Le due Rose
3. Sicilia, Italia, Beatrice e Simbolo
4. Petrarca, o il retore convertito
5. Un ideale a ritroso: la «gauloiserie»
6. Continuazione della cavalleria, fino a Cervantes
7. Romeo e Giulietta -- Milton
8. L'Astrea: dalla mistica alla psicologia
9. Corneille, o il mito combattuto
10. Racine, o il mito scatenato
11. Fedra, o il mito «punito»
12. Eclissi del mito
13. Don Giovanni e Sade
14. La nouvelle Héloïse
15. Il Romanticismo tedesco
16. Interiorizzazione del mito
17. Stendhal, o il fallimento del sublime
18. Wagner, o il compimento
19. Volgarizzazione del mito
20. L'istinto glorificato
21. La passione in tutti i campi
Libro V: Amore e guerra
1. Parallelismo delle forme
2. Linguaggio guerriero dell'amore
3. La cavalleria, legge dell'amore e della guerra
4. I tornei, o il mito in atto
5. Condottieri e cannoni
6. La guerra classica
7. La guerra in merletti
8. La guerra rivoluzionaria
9. La guerra nazionale
10. La guerra totale
11. La passione trasportata nella politica
Libro VI: Il mito contro il matrimonio
1. La crisi moderna del matrimonio
2. Idea moderna della felicità
3. «Amare è vivere!»
4. Sposare Isotta?
5. Dall'anarchia all'eugenetica
6. Senso della crisi
Libro VII: L'amore azione, o della fedeltà
1. Necessità di un partito preso
2. Critica del matrimonio
3. Il matrimonio come decisione
4. Sulla fedeltà
5. Eros salvato da Agapé
6. I paradossi dell'Occidente
7. Al di là della tragedia
Appendici:
1. Carattere sacro della leggenda
2. Cavalleria sacra
3. Canzoni di gesta e romanzi cortesi
4. Concezioni orientali dell'amore
5. Mistica e amor cortese
6. Freud e i Surrealisti
7. L'introduzione della dama nel gioco degli scacchi
8. Dante eretico?
9. «Colpo di fulmine» e conversione
10. Passione e ascesi
11. San Francesco d'Assisi e i catari
12. Le beghine: dal catarismo alla mistica cristiana attraverso la poetica cortese
13. Sul sadismo
Post scriptum:
- Non definitivo e scientifico-polemico
- Influenze ambigue
- La rinascenza catara nel XX secolo
- Replica ai miei critici
- Un trovatore mistico: Henri Suso
- Origini iraniche del Graal
- Trovatori e catari
- Tantrismo e cortesia
- Sull'invenzione dell'amore nel XII secolo
- Invocazione finale
- Malintesi sulla morale
- Passione e allergia
- Passione e droga
- Passione e matrimonio
Bibliografia
Indici
Armanda Guiducci. INTRODUZIONE - Triste Europa — tale potrebbe essere il sottotitolo di questo libro famoso, bello, e tuttora acceso di preoccupanti verità. La prima volta che de Rougemont lo scrisse (se l’era progettato dentro lungo tutta la sua giovinezza), volgevano gli anni dal 1936 al ‘38. L’Europa incominciava ad affondare nella tracotanza del sangue, a colpi di offese: la guerra di Spagna, la guerra di Abissinia, mentre il fascismo dilagava, una macchia d’inchiostro. L’annessione dell’Austria, il e corridoio di Danzica.
L’estate del ‘38 fu una ben tragica estate: e, in quella estate, Denis de Rougemont, scrisse, dalla Francia, la parola e fine » al suo «L’Amore e l’Occidente ». Era un intellettuale giovane, aveva trentadue anni, ma già una sufficiente maturità europea, fra la Svizzera dell’origine e degli studi letterari (era nato a Neuchltel nel 1906), la Svizzera allora straordinario osservatorio dell’inciviltà dilagante, la Germania di Francoforte e, infine, la Francia, perché le pulsazioni febbrili del cuore ammalato dell’Europa non sfuggissero alla presa intuitiva di questo libro intensamente vissuto. Lampi oscuri di certezze disfatte attraversano, come una premonizione, le pagine della prima stesura. È l’epoca in cui tutti i «valori» dell’Europa si offuscano, l’orìzzonte di riferimento, morale e sentimentale, incomincia a barcollare dietro una crescente caligine.
L’epoca che conosce la gestazione di libri come
« Il tramonto dell’Occidente » di Spengler,
« La crisi della civiltà » di Huizinga e
« La crisi dei valori» di Scheler.
L’angoscia che si diffonde — il senso di una prossima e probabile fine — si- tinge culturalmente, nel Nord e nel Centro Europa, dei primi sussulti dell’esistenzialismo di Kierkegaard.
AVVERTIMENTO
Ho chiamato « libri » le diverse parti di quest’opera, perché ognuna abbozza il contenuto d’un volume di dimensioni ordinarie.
La gran quantità dei fatti e dei testi citati, il continuo intrecciarsi dei leitmotiv, rischierebbero di sviare qualche lettore se non dessi qui la chiave della sua composizione.
Il primo libro espone il contenuto occulto della leggenda o mito di Tristano: è una discesa ai cerchi progressivi della passione. L’ultimo libro indica un’attitudine umana diametralmente opposta, riuscendo in tal modo a completare la descrizione della passione: giacché non si può dir di conoscere a fondo se non le cose che si sono su perate o quelle almeno di cui si è potuto toccare, fosse pur senza oltre passarli, i limiti.
Dei libri intermedi dirò che il secondo cerca di risalire alle origini religiose del mito, mentre quelli che lo seguono descrivono i suoi effetti nei più diversi settori: mistica, letteratura, arte della guerra, morale del matrimonio.
Giustificare un volume cosi denso col pretesto che è sempre gradevole parlar di cose d’amore, difficilmente potrebbe convincere. E, d’altra parte, non penso sarebbe vantaggioso per me: ché anzi ci farebbe arrossire l’idea di doverlo dividere con tanti autori di successo. Ho preferito quindi cimentarmi con non lievi difficoltà. Non ho voluto eludere né sottovalutare quello che Stendhal denominava l’amore-passione, ma ho tentato di descriverlo come un fenomeno storico, d’origine propriamente religiosa. E provato che uomini e donne, non solo son sempre disposti a sentir parlare d’amore; anzi, non ne sono mai sazi, anche quando il discorso diventi bisnale; ma non appena si faccia intervenire un certo rigore li assale una gran paura che ci si accinge a definire la passione. I più, opina Laclos, « rinuncerehbero anche ai propri piaceri, se questi dovessero costar loro la fatica d’una riflessione ». Perciò questo libro si dimostrerà necessario nella misura in cui, da principio, farà nascere nel lettore dell’ostilità, e sarà utile solo se varrà a convincere coloro che si saranno resi consapevoli, leggendolo, delle ragioni per cui inizialmente lo trovarono spiacevole. Un tal metodo mi tirerà addosso chissà quanti rimproveri. Gl’innamorati mi tacceranno di cinico, mentre quelli che non hanno mai conosciuto la vera passione si stupiranno di vedermici consacrare tutto un libro. Gli uni diranno che a definire l’amore lo si perde; gli altri che si perde il proprio tempo. A chi piacerò? Soltanto a chi voglia sapere? O addirittura a chi voglia guarire?
Ho preso le mosse da un tipo di passione quali la vivono gli occidentali, da una forma estrema, in apparenza eccezionale: il mito di Tristano e Isotta. Ci è necessario questo punto di riferimento favoloso, questo esempio insigne e « banale » — come si dice che è banale un forno, quindi unico — se nella nostra vita vogliamo comprendere il senso a il fine della passione.
Resta quindi sottinteso che ho semplificato. Perché perdere tempo e stile a spiegare e rispiegare che la realtà è pid complessa di tutto quello che si possa dirue? Il fatto che la vita sia confusa non implica necessariamente che un’opera scritta debba imitarla. Se talvolta ho dogmatizzato, ne chiederò venia soltanto a quelli fra i lettori cui sembra che le mia stilizzazioni tradiscano il senso profondo del mito.
Trascinato dalle mie analisi entro zone riservate ordinariamente agli e specialisti », ho approfittato, per quanto mi è stato possibile, dei lavori reputati classici, e di qualche altro; e se non ne ho citato che un numero assai ristretto, non fu sempre per ignoranza, ma per la preoccu pazione di tenermi all’essenziale. Gli specialisti mi perdoneranno di aver tentato uno sforzo di sintesi che tutta la loro formazione tecnica non può non condannare? In mancanza d’una scienza universale per dominare la quale sarebbero necessarie molte vite mi sono limitato a procurarmi qua e là opportune conferme ad alcune idee affatto intuitive. Ne ho trovate, del resto, più del bisogno, e non ho dato alla luce che il riassunto delle mie ricerche. Questo compromesso mi espone a un duplice rischio: avrei forse convinto qualche lettrice se non avessi fornito prove; e mi sarei acquistato la stima degli specialisti, se non avessi tratto dai loro lavori conclusioni... In questa spiacevole situazione non mi resta che una speranza: quella d’istruire le lettrici divertendo insieme i sapienti.
Ho vissuto questo libro lungo tutta la mia adolescenza e la mia giovinezza; l’ho concepito sotto forma di opera scritta, nutrendolo di qualche lettura, da due anni; infine l’ho redatto in quattro mesi. Tutto ciò mi ricorda la frase di Vernet a proposito d’un quadro che vendeva molto caro: «Mi ha richiesto un’ora di lavoro, e tutta la vita ».
D. dn R.
21 giugno 1938.
Dei libri intermedi dirò che il secondo cerca di risalire alle origini religiose del mito, mentre quelli che lo seguono descrivono i suoi effetti nei più diversi settori: mistica, letteratura, arte della guerra, morale del matrimonio.
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Il primo libro espone il contenuto occulto della leggenda o mito di Tristano: è una discesa ai cerchi progressivi della passione.
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L’ultimo libro indica un’attitudine umana diametralmente opposta, riuscendo in tal modo a completare la descrizione della passione: giacché non si può dir di conoscere a fondo se non le cose che si sono superate o quelle almeno di cui si è potuto toccare, fosse pur senza oltre passarli, i limiti.
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Federico Nietzsche nacque il 15 ottobre 1844 a Röcken, povero villaggio tra la Prussia e la Sassonia. Il luogo, severamente melanconico, che tanto fascino doveva esercitare sullo spirito del fanciullino, era piaciuto al padre Carlo Ludovico, pastore luterano e musicista entusiasta. L'organo della chiesuola diffondeva intorno, la sera, gli spasimi arguti dell'incompreso sognatore. E la gente umile, rapita, taceva. Il tardo Federico, prediletto dal padre, allietato, frattanto, d'un robusto marmocchio e d'una rarissima e spiritualissima figliola, Elisabetta, era compagno grave e taciturno nelle passeggiate solitarie tutte ebre di luccicori di stagni e di accordi nostalgici di campane. Il muto poeta riceveva nella sua gracile sensibilità l'impronta ferrea della mano del destino. Un giorno la sventura piombò sulla tenera esistenza. Il padre, nell'agosto del 1848, in seguito a una violenta percossa al capo, impazziva. Dopo un anno era morto. L'Halévy, nella sua bellissima «Vita di Federico Nietzsche», di cui mi valgo per questi sparuti cenni biografici..
§ 1. Primi anni |
RITTO
Cosí soltanto si può, come scrive Nietzsche potentemente, immergersi nel torrente di ghiaccio dell’esistenza. Non vi si tuffa l'alessandrino, il proto, il bibliotecario, senza fede, senza orgoglio, senza forza. Al pallore romantico dell'opera, il prodotto della coltura alessandrina del nostro tempo, velenosa evaporazione di perfide incertezze, dove necessità non appare, Nietzsche contrappone il germanico risveglio dionisiaco, la rinascita wagneriana della tragedia. Dioniso è l'infallibile giustiziere colà.
VERSO
Il Castiglioni, nel suo libro su Nietzsche scrive che «c'è l'eroe, e manca l'uomo»; e che «già nello Zarathustra s'inizia il commento» al mito, alla scoperta lirica; per il il IV dello Zarathustra è di lettura faticosissima.
Vedremo nel giudizio sul Nietzsche quanta umanità, quanta religiosa nobiltà di sofferenze, cioè, palpiti in questo bizzarro capolavoro di Nietzsche, il volontario della crudeltà, non lontano, talvolta, dal perverso furor di fede di chi ha scritto Le Mystère de Jesus, Pascal
...il fatto che il desiderio sia o non sia soddisfatto, non cambia niente. La passione, una volta dichiarata, pretende molto più che la soddisfazione, vuole tutto e soprattutto l'impossibile: l'infinito in un essere finito.
Come disse il Vescovo di Hieria, in Hieria, in occasione del Concilio del 752 dC., indetto da Costantino V Copronimo (il Sudicio), che disse,’ «Non ci sarà sasso, pietra, albero e ombra di albero che non saranno infatti. L’ultimo miracolo è riservato a Dio».
CAPITOLO PRIMO
Nel primo capitolo del mio romanzo non scritto, spiegavo le ragioni del non-scrivere e il senso della non-scrittura. Come si poteva, infatti, proporre un racconto sulla distruzione del racconto (come si vedrà, sulla libertà del racconto), sulla distruzione dello scolpire, del dipingere (sulla libertà di scolpire e dipingere) rifacendo un libro, una scultura e un dipinto? Mi sembrava di aver capito che per cominciare si doveva cominciare a non-scrivere, a non-dipingere, a non-scolpire e basta. Rifiutare le lingue nuove e le forme nuove. Disprezzare la creatività.
Un momento della non-creatività era certamente nella non-scrittura.
Io, dunque, allora, all’epoca del Gruppo ‘63, fra tanti che scrivevano, tentavano, giravano parlando del romanzo, di «il mio romanzo», ero nella non-parola, cioè: non è che parlassi del non-padare, del non-scrivere etc., etc. Io non-parlavo del non-parlare. E questo non è silenzio, si noti bene. E parlare di altre cose. Non è tacere. Tutt’altro! Così anche io, alla fine, parlavo del mio romanzo. E il mio romanzo era un vuoto: tutto ciò che si può dire attorno a un testo di non-scrittura, ovviamente non-scritto.
P. es. non si parla mai del personaggio principale, ma di altri che non hanno niente a che fare con lui, che sono però in rapporto di non-rapporto. Come un bicchiere con l’acqua che c’è dentro e che non c’è, che ci sarà, oche non ci sarà mai. Tutto si svolge, per così dire, attorno a una certa distanza da qualcosa che potrebbe anche accadere o non-accadere (un non-qualcosa).— Etc. etc. — Come si vede un romanzo che mi ha trascinato in mille altri romanzi (la storia della sarta, la storia dell’operaio dotato di ubiquità etc.) che non avevano collegamento fra di loro.
Così io ho sprecato il mio tempo migliore parlando a vanvera e a casaccio di storie, che stavano di qua o di là, di sopra o di sotto, della storia che mi stava a cuore. Ecco qui la sroria del mio fallimento come scrittore e la storia del mio successo come conversatore. Solo che, parla e parla, attorno a questo mio non-scrivere, l’operazione non- scrittura, una volta, due, o tre (cosa che un vero scrittore non farà mai!) ho rivelato a qualcuno la storia non-scritta, che avrebbe dovuto rivelarsi da sola, in seguito, con gli anni, molti anni dopo. E così mela sono vista ricordare in un modo, tanto goffo, tanto tozzo, brutale e banale (da ultimo — con orrore — in una mostra d’arte concettuale, commercializzata e rifatta quadro!) che ora debbo passare alla stesura, scrivere una volta per tutte, la mia storia non-scritta. Distruggerla io, per sempre, e non pensarci più.
CAPITOLO SECONDO
Si trattava di un ragazzo alla ricerca di un maestro. il ragazzo sa che un maestro, un artista in genere, ha bisogno di chi si occupi di problemi concreti, che si dia da fare, che in un certo senso lo tuteli nei rapporti con il quotidiano. Il ragazzo vive nella città, Siamo nell’immediato dopoguerra e si ha la sensazione, enorme, di una conquista che si sta perdendo. Il 25 Aprile abbiamo conquistato la città, il 26 Aprile abbiamo cominciato a perderla.
CAPITOLO TERZO
Il ragazzo incontra il maestro, Il maestro è uno strano tipo d’artista, risentito e meschino. Accetta il rapporto col ragazzo, ma il rapporto non ha significato. Infatti: per ciò che riguarda l’arte, il maestro non ne parla mai, Mai. Non solo, Non fa assolutamente nulla e il ragazzo, per forza di cose, non riesce ad imparare. Nei rapporti quotidiani, poi, il maestro è sempre immerso in loschi affari, con piccoli mediatori, portaborsari neri, malavita e taccheggiatori. ll ragazzo si trova così con la..
[Corrado Costa, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2007]
Tristi Tropici - il ritorno
40. Visita al Kyong
Conosco fin troppo bene il motivo del disagio provato in vicinanza dell'Islam: ritrovo in esso l'universo da cui provengo; l'Islam è l'Occidente dell'Oriente. Più precisamente ancora, ho dovuto incontrarmi con l'Islam per misurare il pericolo che minaccia oggi il pensiero francese. Non riesco a perdonargli di presentarmi la nostra immagine, di obbligarmi a constatare come la Francia è in via di diventare musulmana. Presso i musulmani come presso di noi, osservo lo stesso atteggiamento scolastico, lo stesso spirito utopistico e quella convinzione ostinata che basti tracciare un problema sulla carta per esserne tosto sbarazzati. Sotto l'egida di un razionalismo giuridico e formalista, ci costruiamo un'immagine del mondo e della società in cui tutte le difficoltà sono sottoposte a una logica artificiosa e non ci rendiamo conto che l'universo non è più formato degli oggetti di cui parliamo. Come l'Islam è rimasto cristallizzato nella contemplazione di una società che era reale sette secoli fa, i cui problemi aveva allora risolto con soluzioni efficaci, noi non riusciamo più a pensare fuori degli schemi di un'epoca già chiusa da un secolo e mezzo, che fu quella in cui sapemmo accordarci alla storia; troppo brevemente, peraltro, perché Napoleone, questo Maometto dell'Occidente, ha fallito là dove l'altro ha vinto. Parallelamente al mondo islamico, la Francia della Rivoluzione ha subìto il destino riservato ai rivoluzionari pentiti, quello cioè di diventare i conservatori nostalgici dello stato di cose in rapporto al quale essi presero posizione un tempo in direzione del progresso.
Tristi Tropici - il ritorno
40. Visita al Kyong
Conosco fin troppo bene il motivo del disagio provato in vicinanza dell'Islam: ritrovo in esso l'universo da cui provengo; l'Islam è l'Occidente dell'Oriente. Più precisamente ancora, ho dovuto incontrarmi con l'Islam per misurare il pericolo che minaccia oggi il pensiero francese. Non riesco a perdonargli di presentarmi la nostra immagine, di obbligarmi a constatare come la Francia è in via di diventare musulmana. Presso i musulmani come presso di noi, osservo lo stesso atteggiamento scolastico, lo stesso spirito utopistico e quella convinzione ostinata che basti tracciare un problema sulla carta per esserne tosto sbarazzati. Sotto l'egida di un razionalismo giuridico e formalista, ci costruiamo un'immagine del mondo e della società in cui tutte le difficoltà sono sottoposte a una logica artificiosa e non ci rendiamo conto che l'universo non è più formato degli oggetti di cui parliamo. Come l'Islam è rimasto cristallizzato nella contemplazione di una società che era reale sette secoli fa, i cui problemi aveva allora risolto con soluzioni efficaci, noi non riusciamo più a pensare fuori degli schemi di un'epoca già chiusa da un secolo e mezzo, che fu quella in cui sapemmo accordarci alla storia; troppo brevemente, peraltro, perché Napoleone, questo Maometto dell'Occidente, ha fallito là dove l'altro ha vinto. Parallelamente al mondo islamico, la Francia della Rivoluzione ha subìto il destino riservato ai rivoluzionari pentiti, quello cioè di diventare i conservatori nostalgici dello stato di cose in rapporto al quale essi presero posizione un tempo in direzione del progresso.
Nei confronti dei popoli e delle culture ancora sottoposte al nostro controllo, siamo prigionieri della stessa contraddizione di cui soffre l'Islam riguardo ai suoi protetti e al resto del mondo. Noi non possiamo ammettere che dei princìpi, fecondi per la nostra espansione, non siano ormai apprezzati dagli altri e quindi rigettati da loro, tanto dovrebbe esser grande, a nostro avviso, la loro riconoscenza verso di noi che li abbiamo immaginati per primi. Così l'Islam che, nel vicino Oriente, fu l'inventore della tolleranza, non perdona i non-musulmani di non
abiurare alla loro fede, poiché essa ha su tutte le altre la superiorità schiacciante di rispettarle. Il paradosso, nel nostro caso, consiste nel fatto che i nostri interlocutori sono musulmani e che lo spirito che ci anima, gli uni e gli altri, offre troppi tratti in comune per non metterci in opposizione. Sul piano internazionale, s'intende; perché queste controversie sono proprie di due borghesie che si affrontano. L'oppressione politica e lo sfruttamento economico non hanno il diritto di andare a cercarsi scuse presso le loro vittime. Se, tuttavia, una Francia di quarantacinque milioni di abitanti si aprisse largamente sulla base dell'uguaglianza dei diritti, per ammettere venticinque milioni di cittadini musulmani, anche se analfabeti in gran numero, essa non adotterebbe un procedimento più audace di quello a cui l'America deve di non essere rimasta una piccola provincia del mondo anglosassone. Quando i cittadini della Nuova Inghilterra decisero, un secolo fa, di autorizzare l'emigrazione dalle regioni più arretrate di Europa, e degli strati sociali inferiori, e di lasciarsi sommergere da quell'ondata, corsero un pericolo, vivendolo, la cui posta era assai più grave di quella che noi rifiutiamo oggi di rischiare.
Potremo mai farlo? Può accadere che due forze aggressive, sommandosi insieme, invertano la loro direzione? Ci salveremo, o piuttosto non determineremo noi stessi la nostra perdita se, rafforzando il nostro errore con quello analogo, ci rassegneremo a ridurre il patrimonio del mondo antico a quei dieci o quindici secoli di impoverimento spirituale di cui la sua metà occidentale è stata il teatro e l'agente? Qui a Taxila, in questi monasteri buddhisti che l'influenza greca ha fatto pullulare di statue, sono in presenza di quella fugace possibilità che il nostro Vecchio mondo ebbe di restare uno; la scissione non è ancora compiuta. Un altro destino è possibile, quello, precisamente, che l'Islam interdice, drizzando una barriera fra un Occidente e un Oriente che, senza di esso, non avrebbero forse mai perduto il loro attaccamento al suolo comune nel quale affondano le loro radici.
Senza dubbio a questo fondo orientale l'Islam e il buddhismo si sono opposti ciascuno a suo modo, contrapponendosi l'uno all'altro. Ma, per comprendere il loro rapporto, non bisogna paragonare l'Islam e il buddhismo mettendoli di fronte sotto la forma storica da essi assunta nel momento in cui sono entrati in contatto; poiché l'uno aveva allora cinque secoli di esistenza e l'altro quasi venti. Malgrado questo scarto, bisogna riportarli tutti e due alla loro prima fioritura, la cui freschezza, per quanto riguarda il buddhismo, si respira davanti ai suoi primi monumenti come nelle più umili manifestazioni di oggi.
Il mio ricordo si rifiuta di dissociare i templi paesani della frontiera birmana dalle stele di Bharhut che datano dal secondo secolo avanti la nostra era e di cui bisogna cercare a Calcutta e a Delhi i frammenti dispersi. Le stele, eseguite in un'epoca e in una regione in cui l'influenza greca non si era ancora manifestata,mi hanno dato un primo motivo di sorpresa; all'osservatore europeo esse appaiono al di fuori dei luoghi e delle età, come se i loro scultori, possessori di una macchina per sopprimere il tempo, avessero concentrato nella loro opera tremila anni di storia dell' arte e - posti a uguale distanza dall'Egitto e dal Rinascimentofossero riusciti a fissare in un attimo una evoluzione cominciata in un'epoca che essi hanno potuto conoscere e che si compie alla fine di un'altra non ancora cominciata. Se esiste un'arte eterna, è proprio questa: che risalga a cinque millenni o a ieri, non sappiamo. Appartiene alle piramidi e alle nostre case; le forme umane scolpite in questa pietra rosa a grana fina potrebbero staccarsene e mescolarsi alla nostra vita. Nessuna arte statuaria procura un più profondo senso di pace e di familiarità come questa, con le sue donne castamente impudiche e la sua sensualità materna che si compiace dell' opposizione delle madri-amanti e della clausura delle figlie, opposte tutte e due alla clausura delle amanti dell'India non buddhista: femminilità placida e come liberata dal conflitto dei sessi, evocata anche, per loro parte, dai bonzi dei templi, confondibili, a causa della loro testa rasata, con le monache, in una sorta di terzo sesso, per metà parassita e per metà prigioniero.
Se il buddhismo cerca, come l'Islam, di dominare gli eccessi dei culti primitivi, questo avviene grazie alla pacificazione unificatrice che porta in sé la premessa del ritorno al seno materno; sotto questo profilo, esso reintegra l'erotismo dopo averlo liberato dalla frenesia e dall'angoscia. Al contrario l'Islam si sviluppa secondo un orientamento mascolino. Tenendo sotto chiave le donne, esso preclude l'accesso al seno materno: del mondo della donna l'uomo ha fatto un mondo chiuso. Con questo mezzo senza dubbio spera anche di raggiungere la tranquillità; ma la paga con delle esclusioni: quella delle donne dalla vita sociale e quella degli infedeli dalla comunità spirituale: mentre il buddhismo concepisce piuttosto questa tranquillità come una fusione: con la donna; con l'umanità, e in una rappresentazione asessuata della divinità.
Non si potrebbe immaginare un contrasto più deciso di quello esistente fra il saggio e il Profeta, né l'uno né l'altro sono dèi, ecco il loro unico punto in comune. Sotto tutti gli altri aspetti sono opposti; l'uno casto, l'altro potente con le sue quattro mogli; l'uno androgino, l'altro barbuto; l'uno pacifico, l'altro bellicoso; l'uno esemplare, l'altro messianico. Ma infatti, milleduecento anni li separano; e il male della coscienza occidentale è che il cristianesimo che, nato più tardi, avrebbe potuto determinare la loro sintesi, sia apparso «avanti lettera» - troppo presto - non come una conciliazione a posteriori di due estremi, ma come un passaggio dall'uno all'altro: termine medio di una serie destinata dalla sua logica interna, dalla geografia e dalla storia, a svilupparsi d'ora in poi nel senso dell'Islam; poiché quest'ultimo - i musulmani hanno vinto su questo punto - rappresenta la forma più evoluta del pensiero reli-
gioso senza peraltro essere la migliore; direi anzi, essendo per questa ragione la più inquietante delle tre.
Gli uomini hanno fatto tre grandi ll:entativi religiosi per liberarsi dalla persecuzione dei morti, dal maleficio dell'aldilà e dalle angosce della magia. A distanza approssimativamente di mezzo millennio, essi hanno concepito successivamente il buddhismo, il cristianesimo e l'Islam; ed è sorprendente che ogni tappa, lungi dal segnare un progresso sulla precedente, testimoni piuttosto un regresso. Non c'è aldilà per il buddhismo: tutto in esso si riduce a una critica radicale, quale l'umanità non sarebbe stata in seguito più capace di fare, il cui termine è il saggio sfociare in un rifiuto del senso delle cose e degli esseri: disciplina che abolisce l'universo e se stessa come religione. Cedendo di nuovo alla paura, il cristianesimo ristabilisce l'altro mondo, le sue speranze, le sue minacce e il suo giudizio finale. Non resta più all'Islam che incatenarlo: il mondo temporale e il mondo spirituale si trovano accomunati. L'ordine sociale si adorna dei prestigi dell' ordine soprannaturale, la politica diventa teologia. In fin dei conti, si sono sostituiti degli spiriti e dei fantasmi a cui neanche la superstizione poteva dare vita, con dei padroni già troppo reali, ai quali in più si permette di monopolizzare un aldilà che aggiunge il suo peso a quello già schiacciante della vita su questa terra.
Questo esempio giustifica l'ambizione dell'etnografo, quella cioè di risalire sempre alle origini. L'uomo non crea cose veramente grandi che al principio; in qualunque campo, solo il primo frutto è integralmente valido. Quelli che seguono sono esitanti e balbettanti, e si affannano pezzo per pezzo a recuperare il territorio superato. Firenze, che ho visitato dopo New York, dapprima non mi ha sorpreso: nella sua architettura e nelle sue arti plastiche riconoscevo Wall Street del XV secolo. Paragonando i primitivi ai maestri del Rinascimento e i pittori di Siena a quelli di Firenze, avevo il senso della decadenza: che avevano fatto questi ultimi se non esattamente quello che non si sarebbe dovuto fare? E tuttavia essi restano ammirevoli. La grandezza propria degli inizi è così certa che anche gli errori, a condizione di essere nuovi, ci abbagliano ancora con la loro bellezza.
Oggi io contemplo l'India attraverso l'Islam; quella di Buddha, prima di Maometto, il quale per me europeo, e perché europeo, si erge fra la nostra riflessione e le dottrine che gli sono più vicine come t]n villano che impedisce un girotondo in cui le mani, predestinate ad allacciarsi, dell'Oriente e dell'Occidente siano state da lui disunite. Quale errore stavo per commettere sulla traccia di quei musulmani che si proclamano cristiani e occidentali e pongono nel loro Oriente la frontiera fra i due mondi! I due mondi sono più vicini che ciascuno di essi non lo sia alloro anacronismo. L'evoluzione razionale è inversa a quella della storia: l'Islam ha tagliato in due un mondo più civile. Quello che gli sembra attuale proviene da un'epo'ca già compiuta, esso quindi vive in uno spostamento millenario. Ha saputo compiere un'opera rivoluzionaria; ma poiché questa si applicava a una frazione arretrata dell'umanità, seminando il reale ha sterilizzato il virtuale: ha determinato un progresso che è l'inverso di un programma.
Che l'Occidente risalga alle fonti del suo laceramento: interponendosi fra il buddhismo e il cristianesimo, l'Islam ci ha islamizzati; quando l'Occidente si è lasciato trascinare dalle crociate a opporglisi e quindi ad assomigliargli, piuttosto che prestarsi - se non fosse mai esistito - a quella lenta osmosi col buddhismo che ci avrebbe cristianizzati di più e in un senso tanto più cristiano in quanto saremmo risaliti al di là dello stesso cristianesimo. Fu allora che l'Occidente ha perduto la sua opportunità di restare femmina.
Sotto questa luce, comprendo meglio l'equivoco dell' arte mogol. L'emozione che essa ispira non ha nulla di architettonico: essa deriva dalla poesia e dalla musica. Ma non è forse per le ragioni suddette che l'arte musulmana doveva restare fantasmagorica? «Un sogno di marmo» si dice del Taj Mahal; questa formula da Baedeker ricopre una verità molto profonda. I mogol hanno sognato la loro arte, essi hanno creato letteralmente palazzi dai loro sogni; non hanno costruito ma trascritto. Così che questi monumenti possono turbare simultaneamente per il loro lirismo e per un certo aspetto vacuo di castelli di carte e di conchiglie. Piuttosto che palazzi solidamente fissati alla terra, sono dei bozzetti che cercano invano di esistere con la rarità e la durezza dei materiali.
Nei templi dell'India l'idolo «è» la divinità; là essa risiede, la sua presenza reale rende il tempio prezioso e terribile, e giustifica le precauzioni devote: per esempio il tenere le porte spranga te, salvo che nei giorni di udienza del dio.
A questa concezione, l'Islam e il buddhismo reagiscono in maniera diversa. li primo esclude gli idoli e li distrugge, le sue moschee sono nude, solo la congregazione dei credenti le anima. Il secondo sostituisce le immagini agli idoli e non ha difficoltà a moltiplicare queste immagini poiché nessuna è effettivamente il dio ma solo lo evoca, e quindi il numero stesso favorisce l'opera dell'immaginazione. Accanto al santuario indù che ospita un idolo, la moschea è deserta, salvo di uomini, e il tempio buddhista contiene una folla di effigi. I centri grecobuddhisti dove si circola a fatica in una fungaia di statue, di cappelle e di pagode annunciano l'umile kyong della frontiera birmana, dove sono allineate delle figurine tutte uguali e fabbricate in serie.
Mi trovavo in un villaggio mogh del territorio di Chittagong nel mese di settembre 1950; da più giorni guardavo le donne portare ogni mattina il cibo dei bonzi al tempio; nelle ore di siesta, sentivo i colpi di gong scandire le preghiere e le voci infantili canterellare l'alfabeto birmano. Il kyong era situato ai margini del villaggio, in cima a una piccola collinetta selvosa, simile a quello che i pittori tibetani amano rappresentare nei loro sfondi. Ai suoi piedi si trovava iljedi, cioè la pagoda; in quel povero villaggio essa si riduceva a una costruzione di terra a piano circolare, che si elevava in sette ripiani concentrici disposti a gradini, in un recinto quadrato di graticcio di bambù. Noi ci eravamo scalzati per arrampicarci sulla collinetta la cui argilla sottile stemperata era dolce ai nostri piedi nudi. Da una parte e dall'altra del viottolo si veçevano le piante di ananas sradicate la sera prima dagli abitanti del villaggio, scandalizzati che i loro preti si permettessero di coltivare i frutti, dato che la popolazione laica provvedeva ai loro bisogni. La sommità offriva l'aspetto di una piazzetta circondata da tre lati da tettoie di paglia, sotto cui stavano riposti dei grandi oggetti di bambù ricoperti di carta multicolore, specie di cervi volanti, destinati a ornare le processioni. Sul quarto lato si elevava il tempio, costruito su palafitte come le capanne del villaggio da cui differivano appena per le sue più grandi dimensioni e il corpo quadrato con il tetto di paglia che dominava la costruzione principale. Dopo l'arrampicata nel fango, le abluzioni prescritte sembravano del tutto naturali e sprovviste di ogni significato religioso. Entrammo. La sola luce era quella che cadeva dall' alto della lanterna formata dalla gabbia centrale, proprio al di sopra dell'altare, da cui pendevano gli stendardi di stracci e di stuoia, e quella che filtrava attraverso la paglia delle pareti. Una cinquantina di statuette di latta si affollava sull'altare accanto al quale era appeso un gong; sulle pareti, qualche cromolitografia sacra e una scena nella quale era riprodotta l'uccisione di un cervo. li pavimento di grosse canne di bambù spaccate e intrecciate, lucido per lo strofinio dei piedi nudi, era, sotto i nostri passi, più soffice di un tappeto. Regnava una tranquilla atmosfera di granaio e l'aria era profumata di fieno. Quella sala semplice e spaziosa che sembrava un pagliaio vuoto, la cortesia dei due bonzi in piedi presso i loro pagliericci posati su delle lettiere, la commovente attenzione che aveva presieduto alla raccolta o alla confezione degli oggetti di culto, tutto contribuiva ad avvicinarmi più di quanto non lo fossi mai stato, all'idea che potevo farmi di un santuario. «Voi non avete bisogno di fare come me» mi disse il mio compagno prosternandosi quattro volte dinanzi all'altare, e io accettai il suo consiglio. Ma era meno per amor proprio che per discrezione: egli sapeva che non appartenevo alla sua confessione e io avrei temuto di abusare dei gesti rituali facendogli credere che li consideravo solo delle convenzioni: una volta tanto, non avrei avuto nessuna difficoltà a osservarli. Fra me e quel culto nessun malinteso si era stabilito. Non si trattava più di inchinarsi davanti a degli idoli o di adorare un preteso ordine soprannaturale, ma solo di rendere omaggio alla riflessione decisiva che un pensatore, o la società che creò la sua leggenda, realizzò venticinque secoli fa, e alla quale la mia civiltà non poteva contribuire che confermandola. Che cos'altro ho appreso infatti dai maestri che ho ascoltato, dai filosofi che ho letto, dalle società che ho visitato e da quella scienza stessa da cui l'Occidente trae il suo orgoglio, se non frammenti di lezioni che, messi uno accanto all'altro, ricostruiscono le meditazioni del saggio ai piedi dell'albero? Qualsiasi sforzo per comprendere distrugge l'oggetto al quale eravamo dedicati, a profitto di un oggetto la cui natura è diversa; esso richiede da parte nostra un nuovo sforzo che lo annulla a profitto di un terzo, e così di seguito fino a che noi accediamo all'unica presenza durevole, che è quella in cui svanisce la distinzione fra il senso e l'assenza di senso: la stessa da cui eravamo partiti. Da ben duemilacinquecento anni gli uomini hanno scoperto e formulato questa verità. Da allora non abbiamo trovato niente se non - tentando una dopo l'altra tutte le vie d'uscita - altrettante dimostrazioni della conclusione alla quale avremmo voluto sfuggire.
Naturalmente, vedo anche i pericoli di una rassegnazione troppo affrettata.
Questa grande religione del non-sapere non si fonda certo sulla nostra incapacità di comprendere. Essa anzi prova la nostra capacità e ci eleva fino al punto in cui scopriamo la verità sotto forma di un'esclusione reciproca dell'essere e del conoscere. Con un'audacia supplementare, essa ha - unica oltre il marxismo riportato il problema metafisico a quello della condotta umana. Il suo scisma si è prodotto sul piano sociologico, essendo la differenza fondamentale fra il Grande e il Piccolo veicolo, quella di sapere se la salvezza di uno solo dipende o no dalla salvezza dell'umanità intera.
Tuttavia, le soluzioni storiche della morale buddhista portano a una tremenda alternativa: colui che ha risposto affermativamente alla precedente domanda si chiude in un monastero; l'altro si soddisfa a buon conto praticando una virtù egoistica.
Ma l'ingiustizia, la miseria, la sofferenza esistono; esse forniscono un termine mediatore a questa scelta. Noi non siamo soli, e non dipende da noi restare sordi e ciechi di fronte ai nostri simili, o di considerare l'umanità esclusivamente in rapporto a noi stessi. Il buddhismo può rimanere coerente pur accettando di rispondere ai richiami dal di fuori. Fors'anche, in una vasta regione del mondo, esso ha trovato la maglia che mancava alla catena. Poiché, se l'ultimo momento della dialettica che porta all'illuminazione è importante, lo sono anche tutti gli altri che lo precedono e gli somigliano. Il ripudio assoluto del senso è l'ultima di una serie di tappe ciascuna delle quali conduce da un senso minore a uno più grande. L'ultimo passo, che ha bisogno degli altri per compiersi, li convalida tutti. A suo modo e sul suo piano, ognuno corrisponde a una verità. Fra la critica marxista che libera l'uomo dalle sue prime catene - insegnandogli che il senso apparente della sua condizione sparisce quando accetta di allargare l'oggetto che considera - e la critica buddhista che completa la liberazione, non c'è né opposizione né contraddizione. Fanno tutte e due la stessa cosa a un livello diverso. Il passaggio fra i due estremi è garantito da ogni progresso della conoscenza, che un movimento di pensiero indissolubile dall'Oriente all'Occidente e che si è spostato dall'uno verso l'altro - forse soltanto per confermare la sua origine - ha permesso all'umanità di compiere nello spazio di due millenni. Come le credenze e le superstizioni si dissolvono quando si affrontano i rapporti ideali fra gli uomini, la morale cede alla storia, le forme fluide cedono il posto alle strutture e la creazione al nulla. Basta invertire la marcia per scoprire la sua simmetria; le sue parti sono sovrapponibili; le tappe superate non distruggono il valore di quelle che le hanno preparate: esse le collaudano. •
Spostandosi nel suo quadro, l'uomo trasporta con sé tutte le posizioni man mano occupate, e tutte quelle che occuperà. Egli è simultaneamente dappertutto, è una folla che avanza, ricapitolando in ogni istante un insieme di tappe. Perché noi viviamo in diversi mondi, ognuno più vero di quello da esso contenuto, esso stesso falso in rapporto a quello che lo contiene. Gli uni si riconoscono dai fatti, gli altri si vivono pensandoli, ma la contraddizione apparente insita nella loro coesistenza si risolve nella necessità da noi subita di accordare un senso ai più vicini e di rifiutarlo ai più lontani; mentre la verità è in una dilatazione progressiva del senso, ma in ordine inverso e spinta fino all'esplosione.
In quanto etnologo, io non sono dunque più il solo a soffrire di una contraddizione che è comune all'umanità intera e che porta in sé la sua ragione. La contraddizione sussiste soltanto quando isolo gli estremi: a che serve agire se il pensiero che guida l'azione conduce alla scoperta dell' assenza di senso? Ma questa scoperta non è immediatamente accessibile: bisogna che io la pensi e non posso pensarla in un sol tratto. Che le tappe siano dodici, come nella Boddhi; che esse siano più o meno numerose, esse esistono tutte insieme e, per raggiungere il termine, sono continuamente chiamato a vivere delle situazioni ciascuna delle quali esige qualcosa da me: io «mi devo» agli uomini come «mi devo» alla conoscenza. La storia, la politica, l'universo economico e sociale, il mondo fisico e lo stesso cielo mi stanno intorno a cerchi concentrici da cui non posso evadere col pensiero senza c~ncedere a ciascuno una particella di me. Come il sasso che cade nell' acqua traccia sulla superficie infiniti anelli concentrici, per raggiungere il fondo devo buttarmi nell'acqua. Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un'efflorescenza passeggera d'una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all'umanità di sostenervi il suo ruolo. Sebbene questo ruolo sia ben lontano dall'assegnarle un posto indipendente e sebbene lo sforzo dell'uomo - per quanto condannato - sia di opporsi vanamente a una decadenza universale, appare anch'esso come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un'inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva. Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all'invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco - e salvo quando si riproduce -l'uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione.
Senza dubbio ha costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch'esse macchine destinate a produrre dell'inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso. Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse di fabbricare ciò che i fisici chiamano entropia, cioè inerzia. Ogni parola scambiata, ogni riga stampata stabiliscono una comunicazione fra due interlocutori, rendendo stabile un livello che era prima caratterizzato da uno scarto d'informazione, quindi una organizzazione più grande. Piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare «entropologia» questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte questo processo di disintegrazione.
Eppure, io esisto. Non certo come individuo; perché che cosa sono io, sotto questo rapporto, se non la posta, a ogni istante rimessa in gioco, della lotta fra un'altra società formata di qualche miliardo di cellule nervose raccolte nel formicaio del mio cranio, e il mio corpo che le serve da robot! Né la psicologia né la metafisica né l'arte possono servirmi da rifugio, miti ormai passibili, anche all'interno, di una sociologia di nuovo genere che nascerà un giorno, e che non sarà per loro più benevola dell' altra. L'io non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un «noi» e un «nulla». E se finalmente scelgo questo <<ooi», benché sia ridotto a un'apparenza, è perché, a meno di non distruggermi - atto che sopprimerebbe le condizioni dell'opzione - non ho che una sola scelta possibile fra questa apparenza e il nulla. Ora, basta che io scelga perché, a causa di questa stessa scelta, io assuma senza riserve la mia condizione di uomo: liberandomi così di un orgoglio intellettuale di cui misuro, da quella del suo oggetto, tutta la vanità, accetto anche di subordinare le sue pretese alle esigenze oggettive della liberazione di una moltitudine a cui i mezzi di una tale scelta sono sempre negati.
Come l'individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l'uomo non è solo nell'universo. Quando l'arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo - questo tenue arco che ci lega all'inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all'uomo l'unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l'impulso che lo costringe a chiudere una dopo l'altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro li-
bertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste - addio selvaggi! addio viaggi! - durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d'interrompere il suo lavoro da alveare, nell'afferrare l'essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d'occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un'intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.